L’arte di esserci davvero (e il tango della vita)

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C’è una storia che mi ha sempre fatto venire un groppo in gola, una di quelle che ti lasciano con un sapore amaro in bocca e un nodo allo stomaco: quella di Wallace Carothers. Genio della chimica, l’uomo che ha inventato il nylon, un’innovazione che ha cambiato il mondo. Eppure, nonostante la sua mente brillante e il suo contributo rivoluzionario, se n’è andato prima di poter assaporare il frutto del suo lavoro, schiacciato da un peso invisibile che nessuno ha saputo o voluto alleggerire.

Immaginatevi la scena: 15 maggio 1940, New York, i grandi magazzini Macy’s presi d’assalto. Donne in fila per accaparrarsi un paio di calze di nylon, la nuova meraviglia tessile. 72.000 paia vendute in un solo giorno. L’anno dopo, 65 milioni.
E poi, la guerra, e il nylon che diventa materiale strategico dagli utilizzi più svariati, per paracadute e sacchi ma non solo. DuPont, l’azienda che aveva creduto in Carothers, incassa miliardi.

Ma chi si ricorda dell’uomo che ha reso possibile tutto questo? Wallace Carothers, un chimico geniale e tormentato, un maniaco del lavoro che passava le notti in laboratorio, dimenticandosi di mangiare e di dormire. Un uomo che, a detta di chi lo conosceva, non era felice, ma forse appena “contento” di tanto in tanto. 

Negli anni ’20 del secolo scorso, DuPont decise di investire nella ricerca scientifica, senza immediate applicazioni commerciali. E Carothers, che insegnava ad Harvard, era il profilo perfetto. All’inizio, lui rifiutò. “Soffro di disturbi mentali, che mi provocano periodi nevrotici nei quali le mie funzionalità e le mie capacità sono notevolmente ridotte”, scrisse, con una lucidità disarmante. Ma DuPont insistette, raddoppiandogli lo stipendio e promettendogli la massima libertà decisionale sulle ricerche da svolgere.

“Nessuno qui mi fa domande sul mio lavoro o su quali siano i miei progetti”, scrisse Carothers a un amico. “Mi lasciano carta bianca e ho piena autonomia “.
Decise di dedicarsi ai polimeri, ma dopo i primi risultati incoraggianti le cose iniziarono a complicarsi.

Prima di tutto, riemersero quei “periodi nevrotici”, quella che oggi verrebbe diagnoticata come depressione grave.
Poi, la Grande Depressione negli Stati Uniti, e la conseguente fine della “scienza per la scienza”: la ricerca fine a se stessa doveva lasciare il passo ad altre priorità.
Infine, i problemi familiari: i genitori, rovinati dalla crisi, si trasferirono da lui ma non nutrendo Carothers per loro un genuino affetto, contribuirono a farlo precipitare ancora di più in un clima più pesante a livello emotivo.
E poi, la rottura con la fidanzata, l’alcol che diventa un rifugio.

In tre anni di tempesta emotiva, Carothers inventò il nylon, ma toccò anche il fondo.
Si sposò con una segretaria, seppe che sarebbe diventato padre, ma non ne trasse alcuna gioia.
A 40 anni, era convinto di aver buttato via tutta la sua esistenza e di non aver concluso nulla. E nel 1937, si suicidò ingoiando una pillola di cianuro.

La cosa più agghiacciante è che molti sapevano che portava sempre con sé quella pillola, forse come una macabra ossessione.
E la notte prima di morire, bussò alla porta di diversi amici, ma nessuno era in casa.
Carothers morì a 41 anni, con la radicata convinzione di essere un fallito.
Due anni dopo, il mondo scoprì il nylon.

Mi immagino Carothers, chiuso nel suo laboratorio, circondato da provette e formule, ma con un vuoto incolmabile che gli rodeva l’anima.
Senza nessuno che si sia preso il tempo di guardarlo davvero negli occhi, di vedere oltre la maschera del genio tormentato.
Nessuno ha avuto il coraggio di chiedergli: “Ehi, Wallace, come stai davvero?”

Lo so, siamo tutti presi dalla corsa frenetica della vita. Impegni, scadenze, obiettivi da raggiungere… sembra che non ci sia mai tempo per fermarsi, per rallentare il passo e guardarsi intorno. Ma se non ci fermiamo, se non impariamo a vedere oltre le apparenze, rischiamo di perdere di vista le persone che ci stanno accanto, quelle che magari sorridono per educazione, ma dentro stanno annegando in un mare di solitudine e disperazione.

Esserci, ma davvero: un’arte che si impara col cuore

Non parlo di messaggi di circostanza, di “mi piace” superficiali sui social media o di pacche sulle spalle date per abitudine. Parlo di presenza autentica, quella che ti fa incrociare lo sguardo di qualcuno e capire che c’è qualcosa che non va, che dietro quel sorriso tirato si nasconde una tempesta emotiva. Quella che ti spinge a mettere da parte il telefono, a spegnere il rumore di fondo della tua mente e ad ascoltare, senza giudicare, senza interrompere, senza cercare di dare consigli non richiesti.

Quante volte ci è capitato di pensare: “Quella persona sembra così forte, così realizzata, così sicura di sé”? E poi, un giorno, scopriamo che stava combattendo una battaglia silenziosa, che si sentiva sola e incompresa in mezzo alla folla, che portava un fardello troppo pesante da sopportare da sola.

Comunità che curano: un terreno fertile per l’empatia

Nel mio mondo, quello della formazione, della crescita personale e del volontariato, ho imparato che i gruppi, le comunità, le associazioni non sono solo numeri e risultati da raggiungere. Sono fatti di persone, ognuna con la sua storia unica, e anche le sue fragilità nascoste, le sue paure silenziose.

E allora, come possiamo creare spazi sicuri e accoglienti in cui nessuno si senta invisibile, dimenticato, abbandonato a se stesso?

Riunioni che scaldano il cuore: non solo tabelle di marcia e scadenze, ma anche un giro di domande sincere, fatte col cuore: “Come ti senti oggi? Cosa ti preoccupa? C’è qualcosa che ti pesa?”

Occhi che vedono oltre le apparenze: impariamo a cogliere i segnali di chi si isola, di chi cambia umore improvvisamente, di chi si spegne lentamente come una candela al vento.

Dialoghi senza maschere: la fiducia è un terreno fertile per la condivisione autentica. Creiamo un ambiente in cui le persone si sentano libere di esprimere le proprie emozioni, senza paura di essere giudicate, criticate o fraintese.

Successi che brillano come stelle: celebriamo ogni piccolo passo avanti, ogni traguardo raggiunto, ogni sforzo profuso. Facciamo sentire le persone apprezzate, riconosciute, importanti, valorizzate per ciò che sono e per ciò che fanno.

Chiedere e dare: il tango della vita

C’è un’espressione tipicamente americana che mi ha sempre affascinato: “It takes two to tango”. La possiamo tradurre con la frase in italiano che ci indica come per ballare il tango ci vogliono due persone, per spiegare che due parti coinvolte devono agire in modo cooperativo affinché un’iniziativa abbia successo, proprio come per riuscire a ballare bene il tango.

Nella vita, come nel tango, non siamo supereroi solitari. Abbiamo bisogno gli uni degli altri. Chiedere aiuto non è un segno di debolezza, ma un atto di coraggio e di consapevolezza dei propri limiti. E offrire il nostro sostegno, la nostra presenza, il nostro ascolto è un dono prezioso, un gesto di generosità che può cambiare la vita di qualcuno.

Nessuno dovrebbe sentirsi come Wallace Carothers, un genio incompreso, un’anima sola che vaga nel buio. Possiamo fare la differenza, nelle nostre vite e in quelle degli altri, semplicemente… essendoci, con il cuore aperto e le braccia tese.

Il tuo piccolo grande gesto: un’onda di gentilezza

Oggi, prova a fare qualcosa di diverso, qualcosa di inaspettato.
Manda un messaggio a quella persona che ti sembra un po’ giù di morale, un po’ spenta. Chiama quel vecchio amico che non senti da troppo tempo, solo per sapere come sta. Invita qualcuno a prendere un caffè, a fare una passeggiata, a chiacchierare senza un motivo preciso.

A volte, basta un piccolo gesto, un semplice atto di gentilezza, per illuminare la giornata di qualcuno, per far sentire qualcuno meno solo. 
E chissà, magari anche la tua.

Spicca il volo!
Riccardo


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