Se hai sentito parlare della legge di Goodhart, probabilmente ti sarai reso conto di quanto sia applicabile non solo in economia, ma anche nella nostra vita quotidiana. Questa legge, formulata dall’economista britannico Charles Goodhart, afferma che “quando una misura diventa un obiettivo, cessa di essere una buona misura”. Questo principio viene spesso citato in ambito lavorativo: basti pensare a quei venditori che, pur di raggiungere la quota mensile, chiudono affari non redditizi, o agli operatori di call center che tagliano corto sulle chiamate per rispettare gli obiettivi di durata. Ma c’è di più: la legge di Goodhart si manifesta anche in aree che mai ci saremmo aspettati, come la ricerca della felicità.
Immagina di voler essere felice a tutti i costi. Controlli costantemente il tuo stato d’animo, misurando ogni momento di gioia e cercando di ottimizzare le tue emozioni. Suona come una buona idea? Purtroppo, la scienza ci dice che non è così. Concentrarsi ossessivamente sulla felicità può avere l’effetto opposto: renderti meno felice.
Come possiamo evitare di cadere in questo paradosso? E soprattutto, come possiamo applicare queste lezioni al nostro percorso di crescita personale, formazione e volontariato?
La ricerca della felicità: un’arma a doppio taglio? Un recente studio pubblicato sulla rivista Emotion ha esplorato proprio questo argomento. Un team di ricercatori dell’Università della California, Berkeley, dell’Università di Toronto e dell’Università di New York ha esaminato 1.800 persone, chiedendo loro di monitorare e registrare i propri stati emotivi nel tempo. Ciò che è emerso è stato sorprendente: più i partecipanti cercavano di valutare e controllare la loro felicità, meno si sentivano felici.
Come è possibile che inseguire (e misurare) la felicità porti, paradossalmente, a meno felicità? La ricercatrice principale, Felicia Zerwas, ha spiegato che una delle cause principali è l’idea che le persone debbano sentirsi felici sempre. La pressione sociale, soprattutto in culture come quella americana, spinge a credere che per essere realizzati dobbiamo essere costantemente in uno stato di euforia e beatitudine. Ma questa è una trappola.
Il problema nasce quando le aspettative non corrispondono alla realtà: cercare di essere felici in ogni momento della giornata crea solo frustrazione e amplifica le emozioni negative che, in modo naturale, emergono nella nostra vita quotidiana. Monitorare continuamente le proprie emozioni ci porta anche a focalizzarci su ogni imperfezione, ogni momento di sconforto, e a dare a queste emozioni una rilevanza sproporzionata.
Confrontarsi con gli altri: un pericolo per la nostra felicità Anche il confronto sociale gioca un ruolo cruciale. Quando pensiamo alla felicità come a un obiettivo da raggiungere, tendiamo a misurarla confrontandoci con gli altri. Ci chiediamo se siamo più felici del nostro vicino, del nostro collega, del nostro amico. Tuttavia, mentre possiamo vedere i segni esteriori del successo di una persona, come una bella macchina o una casa lussuosa, è impossibile percepire il loro livello interiore di felicità. Questo confronto, di fatto, ci allontana ancora di più dalla nostra contentezza personale.
Volontariato e crescita personale: felicità come conseguenza, non come obiettivo Quindi, come possiamo invertire questa tendenza e ritrovare un senso autentico di felicità e benessere? Un primo passo è comprendere che la felicità non deve essere il fine ultimo ma, piuttosto, il risultato di una vita ben vissuta. Possiamo applicare questo principio direttamente nel volontariato, nella formazione e nella crescita personale.
Secondo il ricercatore di Harvard Arthur Brooks, uno dei modi migliori per trovare la felicità è perseguire altri obiettivi che abbiano un significato profondo: costruire relazioni con gli altri, servire una causa più grande di noi, creare un impatto positivo. Il volontariato, ad esempio, è un’attività che offre un’enorme soddisfazione. Non perché ci costringe a cercare di essere felici, ma perché ci dà la possibilità di fare qualcosa di significativo. E la felicità, di conseguenza, arriva come sottoprodotto.
Nel volontariato, così come nella crescita personale, è importante non vedere le attività che svolgiamo come un mezzo per raggiungere la felicità, ma apprezzarle per il loro valore intrinseco. Quando aiutiamo gli altri, impariamo nuove competenze o affrontiamo nuove sfide, non dobbiamo farlo con l’idea che questo ci renderà felici ma, piuttosto, perché sappiamo che stiamo facendo qualcosa di buono e di giusto.
Accettare tutte le emozioni: la chiave del benessere Un’altra strategia per evitare il paradosso della felicità è imparare ad accettare tutte le emozioni, sia positive che negative. Il percorso di crescita personale non è sempre lineare o privo di ostacoli. Ci saranno momenti di sconforto, di dubbio, e persino di fallimento. Questo non significa che stiamo sbagliando qualcosa o che non stiamo progredendo. Al contrario, è parte integrante del nostro sviluppo.
L’importante è non rifiutare queste emozioni negative o considerarle come segnali di fallimento. Nella vita di tutti i giorni, soprattutto nella formazione e nel volontariato, possiamo incontrare difficoltà, frustrazioni o momenti di insicurezza. Accettare questi stati d’animo come parte del processo è essenziale per andare avanti con serenità. È nella sfida che risiede il nostro più grande potenziale di crescita.
La socialità come via alla felicità Un altro aspetto cruciale è il ruolo delle relazioni sociali. Passare del tempo con gli altri, che siano amici, colleghi o persone che incontriamo durante le attività di volontariato, è uno dei modi più affidabili per migliorare il nostro benessere. Numerosi studi dimostrano che la felicità è strettamente legata alla qualità delle nostre relazioni. Investire in queste relazioni, coltivare la comunità e il supporto reciproco, è una delle vie più sicure per raggiungere un senso duraturo di soddisfazione.
La felicità non è un obiettivo, ma un viaggio Tutto ciò ci porta a una conclusione importante: la felicità non è qualcosa che possiamo perseguire direttamente. Come afferma Brooks, la felicità è un sottoprodotto di una vita vissuta con significato e intenzione. Nella nostra ricerca di crescita personale, è fondamentale ricordare che non dobbiamo inseguire la felicità come un trofeo da conquistare. Piuttosto, dovremmo concentrarci sul vivere con integrità, servire gli altri e sviluppare relazioni autentiche.
Se sei attivo nel volontariato, saprai quanto sia gratificante vedere l’impatto positivo che il tuo contributo può avere sugli altri. Se lavori nella formazione, capirai quanto sia arricchente aiutare qualcuno a scoprire il proprio potenziale. E se ti dedichi alla crescita personale, sai bene che la felicità non arriva come risultato immediato ma emerge lentamente, man mano che superi le tue sfide e diventi una versione migliore di te stesso.
Conclusione: vivi la felicità, non inseguirla In sintesi, la legge di Goodhart applicata alla felicità ci insegna una lezione importante: non dobbiamo misurare costantemente il nostro stato emotivo o cercare di essere felici a tutti i costi. Invece, dovremmo concentrarci su obiettivi che abbiano un significato più profondo: aiutare gli altri, crescere personalmente, coltivare relazioni autentiche.
La felicità arriverà, ma non come un fine ultimo. Sarà il risultato di una vita vissuta con passione, impegno e attenzione agli altri. E tu, come stai vivendo la tua ricerca di felicità? Stai inseguendo un obiettivo o stai permettendo che la felicità ti raggiunga lungo il cammino?