
Fai questo e fai quello, corri di qui, corri di là, mille impegni in agenda, imprevisti che si accumulano e, ahimè, sempre poco tempo per fare tutto.
E non ci accorgiamo che, anche se disponessimo di qualche ora in più, troveremmo il modo per aggiungere altri impegni, con il risultato di essere al punto di partenza.
Se la famiglia e il lavoro occupano la maggior parte del nostro tempo, in quello che avanza tendiamo a inserire tante attività: sport, aperitivi, cene, cinema… e volontariato.
Il problema è che più carne mettiamo sul fuoco, più rischiamo di bruciare tutto e di esaurirsi, facendo male o malvolentieri quello che ci piace.
Troppe cose e poco tempo a disposizione.
Non possiamo fare tutto.
Dobbiamo fare delle scelte.
Se per prendere un nuovo impegno dobbiamo togliere tempo ad altre attività, le opzioni sono due:
1) rinunciare all’attività aggiuntiva
2) spostare una parte del tempo da un’attività in corso a quella nuova.
Scritto così è elementare e io non sono certo un guru del time management.
Dobbiamo però riconoscere che, tutti quanti, siamo molto bravi a incasinarci la vita.
Ci lamentiamo di non avere tempo e aggiungiamo nuove attività, per poi sentirci in difetto se non riusciamo a fare tutto.
Un gatto che si morde la coda.
Cosa possiamo fare, allora?
Cominciamo con il mettere da parte i sensi di colpa.
Lamentarsi per non aver fatto qualcosa o per non avervi dedicato il tempo sufficiente o perché qualcosa è andato storto non serve a nulla.
Serve, invece, organizzarsi meglio, chiedersi cosa fare la prossima volta in cui ci troveremo un una situazione simile.
Tempo Libero e Tempo Liberato
Se ci troviamo spesso ad avere troppi impegni e a non riuscire a portarli tutti a termine, valutiamo come alleggerire l’agenda.
Alcuni di voi penseranno:
“Eh, bravo…ma mica le scelgo tutte io le cose da fare!?!
Il bambino all’asilo chi lo porta se non lo faccio io?
Il lavoro che il mio superiore mi ha dato all’ultimo momento, se non lo completo
io non si autoprodurrà magicamente da solo nel weekend…”.
Non facciamo confusione.
Come ho scritto prima, famiglia e lavoro hanno la priorità.
Il punto è un altro: se tutta la giornata è già occupata, non dovremmo prendere altri impegni.
E invece lo facciamo.
Anche quando decidiamo di dedicarci al volontariato.
Volontariato non significa fare qualcosina quando si ha tempo ma prendere l’impegno di garantire una disponibilità costante.
In uno dei primi articoli di questo blog ho elencato i motivi sbagliati che portano le persone a
fare volontariato
(lo trovate qui: https://spiccailvolo.it/volontariato-6-motivi-sbagliati-per-cui-farlo/ )
e ho scritto che non dobbiamo esagerare altrimenti rischiamo di fare le cose male e di stancarci inutilmente.
Mi piace pensare al volontariato come a un’attività da fare nel tempo liberato
(e non nel tempo libero)”.
Qual è la differenza?
Il tempo libero è quello che rimane a diposizione dopo le nostre occupazioni (famiglia, lavoro, commissioni, etc.).
Il tempo liberato è quello decidiamo a priori di dedicare a una determinata attività.
Il volontariato non è un’attività da fare nel tempo libero quando non abbiamo null’altro da fare.
È qualcosa che scegliamo di fare e per il quale liberiamo il tempo necessario.
Anche rinunciando ad altro.
Capita spesso che, di fronte a tanti impegni, l’entusiasmo iniziale venga meno e decidiamo di
lasciar perdere qualcosa.
Di solito la prima attività alla quale si rinuncia è il volontariato.
Ma non tutti, messi nella stessa situazione, fanno la stessa scelta.
Il principio del minimo sforzo
Recentemente ho letto un articolo sul principio del minimo sforzo, sviluppato dal filosofo francese Guillaume Ferrero a fine Ottocento e ripreso nel 1949 da George Kingsley Zipf, professore di filologia all’Università di Harvard.
Secondo questo principio, è nella natura umana desiderare il massimo risultato con la minima quantità di lavoro.
In termini semplici, le persone scelgono naturalmente il percorso più semplice, quello che richiede un impegno minore.
Oltre a essere un comportamento che apprendiamo, la logica del minimo sforzo è legata anche a
fattori evolutivi: avendo, come esseri umani, energie limitate, cerchiamo il maggiore ritorno possibile per i nostri sforzi.
Ad esempio, quando torniamo a casa dopo una giornata lavorativa impegnativa ci abbandoniamo
davanti alla tv (oggi, forse, molto davanti allo smartphone) pensando: sono già stato “acceso e funzionante” per tutto il giorno e mi merito una pausa, quindi stacco letteralmente il cervello per minimizzare lo sforzo se possibile.
Stiamo parlando di impegno sia fisico che mentale.
Uno studio ha rilevato come la stragrande maggioranza delle persone intervistate ritengano lo sforzo cognitivo “un’esperienza avversa da evitare quando possibile”.
Un altro studio collegato ha evidenziato che di fronte alla scelta tra due lavori a carattere intellettivo e non manuale, la maggior parte delle persone sceglie il compito più facile anche se il guadagno è minore.
Il principio del minimo sforzo, però, non spiega perché alcune persone siano disposte a lavorare sodo anche quando non è prevista una ricompensa significativa che giustifichi lo sforzo.
Gli psicologi lo chiamano il paradosso dello sforzo:
non solo lo sforzo aggiunge significato a un compito, ma a volte facciamo le cose semplicemente perché richiedono uno sforzo.
Uno studio del 2011 pubblicato da Harvard Business School lo definisce “Ikea Effect”:
l’idea è che “il lavoro da solo può essere sufficiente per indurre un gradimento maggiore per i frutti del proprio lavoro” e che le persone assegnano “significativamente più valore agli oggetti che immaginavano, hanno creato o assemblato”.
In parole povere, la scrivania che ho assemblato ha per me più valore di una scrivania costruita da
uno che lo fa di mestiere.
Tutto ciò ci riporta alla premessa:
perché alcune persone perseverano mentre altre, di fronte a un impegno, decidono che non ne vale la pena?
(nel caso che ci interessa maggiormente, perché qualcuno trova la voglia di continuare
a fare volontariato nonostante le difficoltà e altri invece rinunciano?).
La differenza sta nella definizione che diamo alla parola “successo”.
Il paradosso del successo
Lavoriamo tutti per una ricompensa, che può essere denaro o qualcosa di intangibile come il
prestigio, la carriera o la gratificazione e senso di autostima che ci dà il fare qualcosa.
Più ci siamo impegnati per ottenere questo risultato, più ne siamo soddisfatti.
A livello fisico, lo striato ventrale, la parte del nostro cervello che elabora esiti positivi, tende ad accendersi maggiormente quando il risultato è frutto di uno sforzo maggiore rispetto a quando centriamo l’obiettivo con uno sforzo minore.
E se a dare senso al successo fosse lo sforzo stesso?
Per capirci, se il traguardo non fosse l’aumento di stipendio ma, più di tutto, impegnarsi per
migliorare una produzione?
O se, pensando a un maratoneta, l’obiettivo non fosse semplicemente correre una maratona ma allenarsi con costanza nei mesi precedenti?
È importante, quindi, concentrarsi non solo sulla meta ma su tutto il percorso fatto per arrivarci.
Senza considerare il fatto che a volte il risultato si trova sotto il nostro controllo mentre in altre ci sono degli elementi totalmente al di fuori della nostra portata, variando non di poco le possibilità di successo finale.
Uno studio recente in scienze psicologiche e cognitive ha scoperto che premiarsi per lo sforzo
invece che per i risultati aumenta la nostra volontà di intraprendere compiti più impegnativi in futuro.
Lo psicologo Carol Dweck dell’Università di Stanford ha teorizzato la differenza tra mentalità fissa e mentalità di crescita, in relazione a rendimento e il successo, e ha affermato che la maggior parte delle persone tende ad avere una delle due prospettive mentali per quanto riguarda il talento:
È importante, quindi, concentrarsi non solo sulla meta ma su tutto il percorso fatto per arrivarci.
Senza considerare il fatto che a volte il risultato si trova sotto il nostro controllo mentre in altre ci sono degli elementi totalmente al di fuori della nostra portata, variando non di poco le possibilità di successo finale.
Uno studio recente in scienze psicologiche e cognitive ha scoperto che premiarsi per lo sforzo
invece che per i risultati aumenta la nostra volontà di intraprendere compiti più impegnativi in futuro.
Lo psicologo Carol Dweck dell’Università di Stanford ha teorizzato la differenza tra mentalità
fissa e mentalità di crescita, in relazione a rendimento e il successo, e ha affermato che la maggior parte delle persone tende ad avere una delle due prospettive mentali per quanto riguarda il talento:
Le persone con prevalente MENTALITÀ FISSA sono convinte che l’intelligenza e l’abilità siano innate e relativamente fisse in ognuno di noi.
Queste persone dicono cose tipo “Non sono così intelligente” oppure “La matematica non fa
per me “, come se non fosse possibile ampliare il pacchetto in dotazione alla nascita.
Chi, invece, ha prevalentemente una MENTALITÀ DI CRESCITA è convinto che la nostra intelligenza e le abilità personali possano essere sviluppate attraverso lo sforzo: siamo ciò che lavoriamo per diventare.
Le persone con questo secondo tipo di mentalità sono più inclini a dire frasi come “Con un po’ più di tempo, lo capirò” o “va bene, farò un altro tentativo per riuscirci”.
Le persone con una mentalità fissa si concentrano sui risultati.
Se falliscono, è perché non sono abbastanza intelligenti.
Non abbastanza abili. Non abbastanza talentuosi. Non abbastanza…qualcosa.
E quindi, per esempio, sono più propense ad abbandonare il volontariato nel momento in cui non riescono a rispettare ogni impegno in maniera continuativa.
Il risultato è la ricompensa – o in questo caso, il segnale di smettere di provare e rinunciare.
Le persone con una mentalità di crescita tendono invece a concentrarsi sullo sforzo.
Accettano il fallimento come parte del cammino.
Si riconoscono la possibilità di continuare a provare per raggiungere l’obiettivo.
Lo sforzo, anche se non in maniera totale, e non il risultato, è già fonte di soddisfazione, perché è lo strumento che porterà al passo successivo.
Che potrebbe non essere il traguardo finale ma magari la consapevolezza della persona che sono diventate durante il viaggio.
Portandoli a trovare la forza di rimettersi sempre in viaggio per realizzare progetti ambiziosi seppur difficili.
Tutto ciò significa che probabilmente continueranno a provare.
E a cercare di realizzare altre cose difficili, capendo che lo sforzo sarà già una ricompensa.
La prossima volta che affronti qualcosa di difficile, quindi, ridefinisci il traguardo finale.
Non pensare al prossimo incontro lavorativo con un potenziale cliente come una prova che deciderà se continuerai ad avere un lavoro oppure no, ma a un incontro con un potenziale cliente, che potrà andare bene o male anche per molti fattori fuori dal tuo controllo.
Metticela tutta per far andare bene quello che puoi controllare.
Un bambino piccolo che sta iniziando a camminare non migliora se gli si dice che dovrà correre una maratona nel giro di pochi mesi…ma viene premiato con gioia al minimo miglioramento che riesce a fare.
Facciamo lo stesso anche con stessi!
Premiamoci per lo sforzo che stiamo facendo.
In questo modo, l’impegno stesso sarà la migliore ricompensa e ci sentiremo motivati ad andare
avanti e a migliorare.
E soprattutto, staremo meglio con noi stessi, senza pensieri limitanti e sensi di colpa che ci bloccano, sapremo ritrovare un maggiore senso di quello che stiamo facendo e il significato vero che ti ho portato a compiere determinati passi.
Anche nel volontariato, dove è facile, col passare del tempo, perdere la motivazione.
C’è una frase che mi piace molto e che mi ripeto spesso quando sbatto il muso contro qualche
ostacolo.
La scrivo qui sotto con la speranza che possa dare anche te la carica giusta per andare avanti.
Se hai provato e hai fallito, congratulazioni!
La maggior parte delle persone non prova neanche…
Spicca il volo!
Riccardo