Ieri sera, versandomi un po’ d’acqua nel bicchiere, mi sono ritrovato a pensare come fossi riuscito ad adattarmi ai vari contesti nei quali mi sono ritrovato nel corso della mia vita, proprio come l’acqua prende la forma del recipiente nel quale la versi. Ho dovuto constatare che alcune volte l’adattamento mi è riuscito molto bene, altre volte il risultato è stato mediocre. Analizzando le situazioni nelle quali il risultato era stato meno brillante, ho notato che avrei potuto fare qualcosa di più, magari proponendomi in modo differente o avvicinandomi di più a posizioni diverse dalla mia su determinati argomenti. Altre volte, paradossalmente, avrei dovuto fare di meno per ottenere conseguenze migliori per me e per gli altri. E in alcune situazioni i riscontri non eccelsi sono stati raggiunti per colpe mie, altre volte per comportamenti altrui, altre ancora per particolari casualità legate al contesto.
Mentre mi versavo l’acqua ho cominciato a domandarmi se sia il recipiente a fare il contenuto o se quest’ultimo possa influire sul contesto nel quale è inserito.
E’ il volontario che fa l’associazione oppure l’associazione che fa il volontario?
OK, siamo un po’ sulla falsariga dell’annosa questione se sia nato prima l’uovo o la gallina…
Ma la domanda è utile e ci può portare ad alcune riflessioni interessanti. Possiamo farci questa domanda per tutti i contesti nei quali viviamo e trascorriamo il nostro tempo. La famiglia, ad esempio, oppure il lavoro.
Io sono figlio unico di figli unici: le riunioni familiari sono sempre state ridotte all’osso e anche le cene non hanno mai previsto lunghe tavolate. La mia migliore amica, invece, viene da una famiglia molto numerosa: anni fa organizzò una cena con i soli cugini di primo grado e i partecipanti erano un centinaio! Quando penso a un incontro di famiglia, quindi, io lo immagino in un modo diverso rispetto alla mia amica e adatto di conseguenza il mio comportamento, in maniera automatica, in modo totalmente diverso da lei. Non è un giudizio, non c’è una situazione migliore rispetto all’altra: semplicemente, i contesti sono l’uno l’opposto dell’altro. (Per la cronaca, quando mi ritrovo con la famiglia della mia amica mi sembra di essere su un set cinematografico, esattamente come lei quando frequenta la mia pensa di ritrovarsi in un eremo francescano).
Anche in ambito aziendale, contesti diversi influiscono in modo differente sul comportamento delle persone. Ci sono aziende più formali, nelle quali ci si dà del lei, con un codice comportamentale non scritto che si impara immediatamente e che viene seguito da tutti. In altre, invece, viene immediatamente detto ai nuovi assunti che ci si dà del tu a prescindere dal ruolo ricoperto in azienda. E queste differenze non sono dettate dalle dimensioni aziendali ma da una policy interna. Se una persona cambia azienda, passare da un’impostazione formale a una informale potrebbe risultare faticoso e implicare anche un modo diverso di lavorare. Il disagio sarebbe maggiore nel passaggio da un ambiente in cui il rapporto fra colleghi è amichevole a uno più “ingessato”.
Possiamo farci la stessa domanda se sia il singolo a contribuire alla formazione del gruppo o se sia quest’ultimo a plasmare il volontario nel mondo associativo.
Sia analizzando il contesto che valutando l’impatto del volontario sull’associazione.
Quanto un volontario, con il suo contributo, realizza – e, in alcuni casi, modifica in parte – la mission dell’associazione e quanto, invece, è l’associazione a plasmare il volontario? Ovviamente mi riferisco a cambiamenti positivi, in entrambi i casi.
Quanto il contesto ambientale può modificare il comportamento del singolo e quanto invece il singolo può contribuire a modificare la rotta sempre seguita?
Se una persona afferma di non trovarsi bene in un certo contesto, questo può valere per tutte le persone che si trovano nella stessa condizione oppure è solo quel singolo individuo che non si incastra bene in quel contesto? Pensate alla cronica incapacità che noi italiani abbiamo a stare in coda, al supermercato, alle Poste o dal medico. Se, però, ci troviamo all’estero, ad esempio in Giappone, diventiamo più pazienti. Tolleriamo di buon grado, almeno per un po’, fino a quando scatta in noi la ribellione a regole che troviamo troppo rigide e alle quale non siamo abituati.
Secondo il sociologo e filosofo canadese Marshall McLuhan “gli ambienti non sono semplici contenitori, ma sono processi che cambiano totalmente il contenuto”.
Sto riflettendo molto su questa sua affermazione domandandomi quanto dei semplici e piccoli cambiamenti potrebbero variare il senso di appartenenza al contesto o aumentare la possibilità di esprimersi al meglio. Quanto è importante la cura dei dettagli per farci sentire parte di un progetto di gruppo?
Ritornando all’acqua nel contenitore, quanto ti senti a tuo agio nel contenitore (associativo, lavorativo o familiare o anche in un rapporto di coppia) e cosa invece vorresti cambiare per sentirti meglio e poter esprimere la migliore versione di te? Prenditi un po’ di tempo per rifletterci.
Nel porti questa domanda non giudicare te stesso/a né il gruppo nel quale ti trovi ma analizza cosa puoi fare nel breve periodo per portare un cambiamento positivo per te e per gli altri.
Il rischio, se non prendi coscienza della situazione e restando nell’esempio, è che se si abbassa la temperatura, l’acqua che tu rappresenti diventi ghiaccio…e spacchi il contenitore…