Cosa pensi ma non dici? Come gestire le conversazioni conflittuali.

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Cos’è che pensi ma non dici?
Basta porre questa domanda per sbloccare una conversazione che si sta arenando, a volte facendo scaturire potenziali conflittualità pronte a esplodere.

È quanto sostiene Debbie Goldstein, docente presso la Scuola di Legge di Harvard ed esperta nello sviluppo della leadership.
Secondo Goldstein, quando ci troviamo in una conversazione difficile e diamo un feedback sincero ma duro, oppure quando comunichiamo delle cattive notizie o affrontiamo un conflitto, chiedere “cos’è che pensi ma non dici?” può aiutarci ad abbattere le barriere e a creare fiducia con il nostro interlocutore, indirizzandoci verso la risoluzione del problema e a una migliore comunicazione. 

Il team di Goldstein ha svolto varie ricerche sulle conversazioni critiche tra le persone per capire come migliorare le interazioni tra gli individui e ha notato che quando ci troviamo in una colloquio difficile il problema non nasce dalla persona con cui stiamo parlando e neanche dall’argomento di cui stiamo parlando.
In tutte le conversazioni difficili si ripete sempre lo stesso schema, indipendentemente da chi sia il nostro interlocutore (un collega, il nostro partner o un figlio, un altro volontario della nostra associazione oppure un cliente) e a prescindere dall’oggetto della discussione.

Questo schema prevede 3 passaggi o, se volete, 3 strati sovrapposti all’interno della conversazione, che possiamo anche vedere come 3 conversazioni all’interno della stessa.  

La prima conversazione riguarda ciò che è realmente accaduto: in sostanza il problema o situazione conflittuale di cui stiamo parlando e che stiamo cercando di risolvere.

La seconda è una conversazione inespressa sui sentimenti.
Se ci sentiamo irritati o confusi, respinti dall’altro e preoccupati per l’evoluzione della discussione, dovremmo esprimere questi sentimenti ma molto raramente lo facciamo o abbiamo la possibilità di farlo, con la conseguenza di aggiungere negatività che turbano il nostro autocontrollo.

La terza conversazione, quella più profonda, è quella che Goldstein chiama la “conversazione dell’identità”.
Per capire la definizione, ci basti pensare che ognuno di noi ha delle convinzioni su sé stesso. I problemi sopraggiungono, e complicano la conversazione, quando il nostro interlocutore mette in discussione queste convinzioni, all’interno della discussione.
Nel momento in cui viene contestata la nostra mappa delle convinzioni, e anche i valori di base su cui si fondano, potremmo andare in crisi perché queste basi non ci sembrano più così solide oppure reagire con rabbia per difenderli strenuamente.
In entrambe le situazioni abbiamo lasciato il territorio del confronto per entrare in quello del conflitto.

Cosa fare per gestire meglio le conversazioni difficili?

In un mondo perfetto, dovremmo essere sempre consapevoli di tutti e tre i livelli della conversazione.
Che fare quando non ne siamo consapevoli?

Generalmente, purtroppo, affrontiamo queste conversazioni difficili con il solo obiettivo di convincere l’altra parte e, quando non ci riusciamo subito, di dimostrare perché gli altri hanno torto.
Per riuscirci, attuiamo una serie di giochi psicologici e verbali.
Volendo semplificare al massimo, i passaggi si basano su poche domande alle quali diamo risposte sempre uguali e sbrigative per dimostrare a noi stessi di essere dalla parte di chi ha ragione.

Chi ha ragione? Io!
Chi ha torto? Tu!
Perché stai dicendo/facendo questa cosa? Non capisci che è sbagliata perché…e qui aggiungiamo tutta una serie di prove che dimostrano quanto sbagliato sia l’altro punto di vista.

Siccome anche l’altro mette in atto lo stesso schema, le probabilità di arrivare a una risoluzione tendono a zero.

Quindi è impossibile arrivare a un finale differente?
No, abbiamo ancora la speranza di farcela, se ci mettiamo in gioco!

Lo possiamo fare allenando il nostro cervello a porsi domande differenti.
Ad esempio, invece di chiederci “Chi ha ragione? Io!”, domanda che lascia poco spazio al dialogo, possiamo chiederci perché l’altro ha un’idea diversa e cercare di capire su quali presupposti si basi e come si è costruita.
Così come possiamo interrogarci su come abbiamo contribuito in prima persona a complicare la situazione, senza dare all’altro la colpa di tutto.
E invece di chiederci perché gli altri hanno compiuto una determinata azione, possiamo domandarci che effetto hanno in questo momento quelle azioni e come possiamo farne tesoro per il futuro.
Il concetto di fondo è passare dalla certezza alla curiosità. Spostarci dalla cristallizzazione sulle nostre idee e opinioni per sporgerci con sincero interesse verso quelle degli altri che non vedono le cose come noi.

Prestando la dovuta attenzione, possiamo intuire che c’è un distacco con le persone con le quali interagiamo osservando quelle che dicono e come lo dicono.
Se ad esempio le persone con le quali stiamo avendo una conversazione difficile abbandonano la loro solita loquacità e cominciano a risponderci per monosillabi.
O ancora, osservando variazioni nelle espressioni del viso o nel linguaggio del corpo.
Quando notiamo variazioni di questo tipo, possiamo ridurre la distanza dall’altro chiedendo semplicemente: “Cos’è che stai pensando ma non dici?”

Nonostante possa sembrare una domanda molto semplice, rimarrete notevolmente stupiti nel notare quanto dia la possibilità all’altro di aprirsi.
La cosa più incredibile è che anche quando le persone non rispondono apertamente a questa domanda, si allentano comunque le tensioni, perché il nostro interlocutore percepisce che ci teniamo davvero, che ci interessa sapere quello che pensano e che vogliamo avere con loro una conversazione costruttiva.

Concludo provocatoriamente invitandovi a farlo anche davanti allo specchio…

Cos’è che pensi ma non dici?

Spicca il volo!
Riccardo

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